Ci sono opere che non hai bisogno di conoscere la storia dell’arte per capire. Ci sono opere il cui significato arriva dritto al cuore. Il Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, a Napoli, è una di queste.
L’incontro può avvenire in maniera del tutto casuale, quando meno ve lo aspettate. Questo gioiello del Barocco non si trova infatti all’interno del duomo, né in una delle principali chiese partenopee, bensì in una cappella, la Cappella Sansevero, che affacciata su una viuzza del centro storico può passare inosservata se non si conosce la città, ma io a Napoli ho avuto la fortuna di averci abitato. All’epoca ero piccola, ma quando si è vissuto in un luogo per alcuni anni e poi ci si fa ritorno, anche se è passato molto tempo, ci sono scorci, panorami, sapori, rumori, ed un’insospettabile miriade di altri dettagli che si riaffacciano, familiari, alla memoria. È allora che si avverte quella dolce sensazione, a volte un po’ nostalgica, come d’altronde lo sono molti ricordi d’infanzia, che ti fa dire: sono tornato a casa! Ecco perché quando ho rivisto il Cristo Velato è stato come rivedere un volto caro, a me familiare, prima ancora che un capolavoro mondiale.
Entrando nella Cappella Sansevero a Napoli lo stupore è grande, e non tanto per via di quella teatralità scenografica, talvolta quasi pomposa, così in voga presso gli artisti barocchi, quanto piuttosto per il contrasto con cui emerge dalla penombra quel Cristo morto, avvolto nel sudario, e nato da un unico blocco di marmo bianco, che nelle mani del Sanmartino diventa carne e stoffa. Una stoffa così leggera e impalpabile che si ha la sensazione di poterla piegare solo toccandola. Tale maestria nel modellare questa dura pietra ha lasciato “stupiti i più abili osservatori”, ricorda Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero. E gli si può ben credere. Sono molti infatti i viaggiatori che dal Settencento in poi si sono recati ad ammirare il Cristo Velato, dal marchese de Sade, che esalta la finezza del velo e la regolarità delle proporzioni dell’insieme, allo scrittore contemporaneo Hector Bianciotti, che parla di sindrome di Stendhal alla vista di quel velo marmoreo “piegato, spiegato, riassorbito nelle cavità di un corpo prigioniero, sottile come garza sui rilievi delle vene”.
Curiosità: la perfezione del velo è tale che c’è chi lo considera il risultato di un processo alchemico di “marmorizzazione”. Se in questo caso è fuor di dubbio che una simile ipotesi è pura leggenda e niente più, il mistero si fa più fitto quando, scendendo nella cavea sotterranea della cappella, ci si ritrova al cospetto delle due macchine anatomatiche, originariamente collocate in una stanza del palazzo del principe di Sansevero. Decisamente impressionante è la precisione con cui è stato riprodotto l’apparato circolatorio all’interno degli scheletri di un uomo e di una donna. Talmente fedele alla realtà che già in una guida settecentesca si parla di ‘metallizzazione’ dei vasi sanguigni, raggiunta tramite un’iniezione a base di mercurio, inoculata nei due cadaveri. Secondo un’altra ipotesi, si tratterebbe di una fedele ricostruzione realizzata con vari materiali, come la cera d’api e alcuni coloranti. Anche in questo caso, non viene comunque meno l’eccezionalità delle due Macchine che per secoli hanno alimentato la cosiddetta ‘leggenda nera‘ intorno alla figura di questo principe alchimista.
Ringrazio la mia ‘socia’ Chiara pubblicamente per questo post: mi ha fatto ritornare con la mente, ma soprattutto con il cuore, in uno dei luoghi più emozionanti della mia Napoli, facendomi venir voglia di tornare ad ammirare il Cristo Velato il più presto possibile!
E a proposito di “veli”, nella stessa Cappella Sansevero oltre al Cristo c’è anche una pudica donna velata…
(http://www.museosansevero.it/cappellasansevero/statue/pudicizia.html)